“Allora, quando parli, dovresti dire ciò che intendi dire” , soggiunse il Leprotto Marzolino”.
“Certo” replicò prontamente Alice; perlomeno – perlomeno io intendo dire proprio ciò che dico – che è poi la stessa cosa, no?”. “No che non è la stessa cosa!” esclamò il Cappellaio. A questa stregua, potresti sostenere che “Vedo ciò che mangio” sia la stessa cosa di “Mangio ciò che vedo!””.
“A questa stregua aggiunse il Leprotto Marzolino, potresti sostenere che “Mi piace quello che prendo” sia la stessa cosa di “Prendo quello che mi piace!””.
Non è sempre facile dire chiaramente ciò che si intende, il timore o la paura delle conseguenze crea spesso una barriera di separazione. Questo vale da entrambe le parti. Ma può capitare di accorgerci che per i nostri figli non è sempre facile esprimere le proprie sensazioni o non riescono a farlo del tutto. Proviamo a dirigere lo sguardo su di noi per capire se c’è qualcosa che accade nella relazione e che non facilita questa apertura. Potremmo osservare se:
la nostra prima risposta a volte non è la presenza (che crea sintonizzazione) ma sembra arrivare da un distributore di consigli e soluzioni.
le nostre spiegazioni o i tentativi di persuasione rischiano di diventare per i figli onde di parole che impediscono il processo di decisione e di azione.
percepiamo le parole dei figli come provocazioni che innescano una reazione forte e immediata come se fossimo intrappolati nella sensazione di non avere altra scelta che alzare un muro e che qualsiasi altra reazione vorrebbe dire “perdere una battaglia”.
Se provassimo ad allenarci a leggere le parole di un figlio come un semplice tentativo da parte sua di “affacciarsi alla finestra”, cosa succederebbe dentro di noi e a quella tensione?
Anche noi abbiamo la possibilità di poterci semplicemente “affacciare ” come prima o unica risposta al richiamo dei figli ovvero osservare e non dedurre, come per dire: “eccomi, parlami pure, posso ascoltarti da qui o mi stai chiedendo di più?”
Il nostro ruolo di genitori può rimandare la convinzione di dover “aggiustare” ciò che si presenta davanti per far star meglio i nostri figli, quando magari ci chiedono solo di essere autentici con quello che proviamo di fronte alle loro parole, anche se si trattasse di semplice allarme.
“Mi sento così condannata dalle tue parole, mi sento giudicata e allontanata,
prima ancora di aver capito bene. Era questo che intendevi dire?
Prima che io mi alzi in mia difesa, prima che parli con dolore o paura,
prima che costruisca un muro di parole, dimmi, ho davvero compreso bene?
Le parole sono finestre, oppure muri, ci imprigionano o ci danno la libertà.
Quando parlo e quando ascolto, possa la luce dell’amore splendere attraverso me.
Ci sono cose che ho bisogno di dire, cose che per me significano tanto,
se le mie parole non servono a chiarirle, mi aiuterai a liberarmi?
Se sembra che io ti abbia sminuito, se ti è parso che non mi importasse,
prova ad ascoltare, oltre le mie parole, i sentimenti che condividiamo.”Ruth Bebermeyer
INTENZIONE: le onde della verbosità o la trappola della reazione
oggi posso provare a notare se mi sento in modalità di chiacchiere o tendo a fare la predica o a dare troppe spiegazioni e decidere di provare a non farlo per un giorno
Posso provare a notare quante volte uso le parole sempre, mai, ogni volta, spesso, raramente e notare se le usiamo per valutare o osservare?
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